
domenica 11 novembre 2007
La figlia del vento

martedì 6 novembre 2007
giovedì 1 novembre 2007
RES POPULI
da poco sono stato eletto delegato di zona nella mia municipalità e questo anche per merito di alcuni di voi. Chi mi conosce bene sa che, sin dagli anni del liceo, ho sempre nutrito una viscerale affezione alla res publica, maturando per mio conto nel tempo un’educazione civica ispirata a quell’idea di uomo libero sognata dalle migliori menti del liberalismo ottocentesco. Ieri sera mi trovavo vis-à-vis col dott. X per parlare di quelli che saranno i nostri innumerevoli impegni futuri. Ascoltavo entusiasta questo anziano signore – quando l’ho definito cautamente “saggio” mi ha detto di chiamare le cose col loro nome – mentre mi parlava dei problemi che affliggono da decenni il nostro quartiere e che negli ultimi anni si sono acuiti, portando la sopportazione dei cittadini ai minimi storici. Leggevo nei sui occhi una passione giovanile, una forza nuova, ma sostenuta da numerose primavere vissute lottando contro quel sistema schiavo dei poteri forti che ci opprime come l'afa, contro una macchina statale inefficiente e farraginosa in cui perversa una burocrazia che è paravento dell’inettitudine e della negligenza di molti. Una LAN di responsabilità in cui si scaricano le proprie colpevolezze sulle spalle degli altri, in un circolo vizioso e viziato. In questo farmacista e farmacologo dal fine intelletto e dall’invidiabile caratura morale, che ha girato tutto il mondo smaliziando ogni residuo della propria perduta ingenuità, ho intravisto un mentore da seguire nel lungo cammino che ho intrapreso. Dico lungo perché sento nel cuore un fuoco vivo, una passione che difficilmente si spegnerà. Appena eletto una signora mi si è avvicinata e mi ha parlato dei problemi di illuminazione e pulizia che affliggono da anni la via in cui abita: mi ha detto di avermi votato e che si sarebbe ricordata il mio nome se non avessi fatto nulla per lei. Il suo monito non mi ha preoccupato, anzi, mi ha motivato con una voglia inderogabile di responsabilità per provvedere alle sue esigenze e a quelle di tutti i miei concittadini. Ci sarà da lottare, forse anche contro dei mulini a vento. Io, poi, non ho nemmeno una tessera politica – forse anche per questo il dott. Lucchetta ha tanto apprezzato il mio accorato fervore nel voler cambiare il volto del nostro quartiere – e sono sostenuto dalla mia piccola “lista civica”, da quelle persone residenti nel mio quartiere che sono stanche di vedere che le cose non cambiano mai. Che non ce la fanno più di vivere in un paese in cui le promesse vengono disattese con una naturalezza disarmante, declassando immoralmente persino la propria parola d’onore ad artificio politico. Penso che il vero processo di schiavizzazione di un uomo avvenga dapprima nella mente e che si estenda solo in un secondo tempo alle privazioni del corpo. Io non sarò mai schiavo della corruzione e dell’inettitudine di certa classe politica, e queste mie parole ne siano testimonianza per i posteri. Non vivrò mai una vita scevra dal senso del dovere, spoglia di quell’educazione civica che mi vede ora in prima fila a lottare per i diritti della mia famiglia e dei miei concittadini. A combattere per difendere le nostre case, per tutelare le nostre libertà, per dar voce alle nostre esistenze. Destatevi, figli d'Italia, perché il sonno della democrazia produce schiavi!
So, cari amici miei, cha d’ora in poi dovrò togliere alle nostre amicizie del tempo per poterlo spendere proficuamente per il bene del mio quartiere; un quartiere sempre più in degrado, dove basta una pioggia sopra le medie stagionali per finire sott’acqua e vedere sepolta dalle fogne la propria casa. Un quartiere dove non vengono garantiti i servizi fondamentali che un cittadino paga con le fatiche del proprio lavoro, ma dove invece la vita viene mantenuta costantemente sotto la soglia del decoro e della sicurezza.
Da oggi, amici miei, mi batterò perché il volto di Mestre possa ritornare a sorridere. Da oggi, se mai fosse possibile, sarò ancora di più vostro amico.
Mattia
sabato 27 ottobre 2007
Stella d'Ottobre
Se avesse potuto scegliermi una sorella
il mio cuore ti avrebbe scelta fra tutte;
se gli chiedo di indicarmi un’amica speciale
mi risponde che è in te che la posso trovare.
Se solo lui potesse viaggiare nel tempo
trasformerebbe i nostri litigi in abbracci.
Non aver dubbi mai su queste mie parole
perché a dettarmele è il mio cuore sincero
e c’è solo un’altra persona al mondo
a cui potrei ripeterle e dar loro senso:
la tua amica e sorella Marta.
Auguri, mia piccola Stella d’Ottobre,
dalla profonda infinità del mio cuore.
venerdì 26 ottobre 2007
Emotional landscape

E me ne sto seduto al limite del mare,
ne prendo le distanze per osservare
il moto perpetuo delle sue onde
gioco di richiami, di rilasci: sponde
ove rimbalza, molle, la mia ragione.
Archi perfetti sulla sabbia scura
sono un’impronta d’eterno:
una parola scritta infinite volte.
Ma è una scritta sulla sabbia che svanirà come le orme dei miei passi.
mercoledì 24 ottobre 2007
Archegonia mentale
E il mio pensiero s’inabissa
tra le venature di un marmo,
cosmogonia di mondi nuovi
che officina inquieti mostri.
Un cielo biancheggia di nuvola:
è l’arrivo delle creature fanciulle;
riposa l’elefante sul tramontar
al canto muto di una sirena alata.
martedì 23 ottobre 2007
Cuore di ronin
“Ama!” grida il mio cuore di ronin
ma vivo nel tempo d’un respiro
schivo paro colpisco. Letale.
Un’onda di luce dietro ogni azione,
come ombra: si confonde in me
il-bianco-che-abbraccia-il-nero
in un istante d’eterno vivere
sono una musica – rumore? -
sicuro rifugio degli opposti.
Quante contraddizioni, ancora,
gridano all’unisono: mute frequenze
si muovono carsiche
per essere udite, da chi udirle potrà.
lunedì 22 ottobre 2007
Come fari nella tempesta
La Vita. Tentavo di disegnarla. Un primo schizzo era stato questo: un fiume in piena e noi – intendo quelli che non si lasciano semplicemente trasportare dalla corrente – che cerchiamo di percorrerlo sulle nostre piccole canoe, pronti a schivare rocce disseminate ovunque e sperando di non finire in un vortice da cui non usciremmo vivi. Ma in questa fotografia (troppo realistica infatti) mi era difficile dare la giusta dimensione all’affetto che mi lega a tre persone speciali. In questo modo non sarei riuscito a parlarvi di Matteo, di Alberto e di Ricardo. Così, pensando ad un nome da dare al mio blog, ho immaginato che “il faro” potesse essere non solo metafora di me stesso, ma anche della nostra amicizia. In quelle acque agitate, allora, non siamo più quattro temerarie imbarcazioni che cercano di stare a galla, semplici rotte tra le rotte, ma diveniamo dei punti fissi, l’uno per l’altro, che cercano a loro modo di far luce in un mondo sempre più eclissato dal nonsenso. Che cercano di mostrare a gli altri chi sono, di indicare il loro cammino. La speranza è quella di incontrare qualcuno che condivida con noi passioni, ideali e sogni. Che, insomma, condivida la nostra esistenza. Ecco perché nasce il faro, come metafora di uno sguardo “sempre fisso che sovrasta la tempesta”, di un ideale che non cede alle pressioni della superficialità e della mediocrità; che controcorrente, se necessario, continuerà ad illuminare il suo angolo di mondo. E poi i colori. I colori con i quali dipingiamo la nostra vita. Ad ognuno il suo, differente, per simboleggiare le nostre peculiarità. Ragazzi, vi conosco esattamente dallo stesso istante: primo giorno di scuola alla IA del liceo Morin. Però vi ho “incontrati” in momenti diversi. È stata la luce verde di Matteo la prima ad illuminare nella mia stessa direzione. Una luce accecante, capace di illuminare il Cosmo intero, e talmente simile alla mia che se fossimo nati stelle saremmo stati Mizar ed Alcor, una stella doppia. E da quel momento, giorno dopo giorno, capii che avevo conosciuto una persona con la quale condividere, e forse realizzare, gran parte dei miei sogni. È stata poi la volta della luce viola. Non a caso quel colore lo conobbi in un momento particolare della sua vita. Di colpo venni illuminato da una profondità d’animo senza eguali e da una coerenza morale a cui spesso cerco di tendere, ma come si tende all’infinito, senza mai raggiungerlo. Un colore, il viola di Alberto, che illumina di un’apparente malinconia, come un canto di violino che suona una musica criptica – perché preziosa – ma che nasconde un messaggio che è il significato stesso della vita: Amore. Ultima, la luce azzurra, è diventata in questi ultimi anni la colonna sonora della mie giornate. Ricardo è la persona che più si avvicina al mio personale concetto di artista: una creatività quasi surreale, come un film di Tim Burton. E poi il suo entusiasmo è fuoco vivo che nutre le mie passioni, dal canto alla scrittura, e che si ravviva ogni volta che le nostre strade si incontrano.
Vi voglio bene ragazzi.
Vostro,
Mattia.
domenica 21 ottobre 2007
Yi Nu
Era la mattina del mio ultimo giorno a Xiamen. Una successione in crescendo di grida provenienti dalla camera dei vicini squarciò come fossero di cartapesta le mura che per pura formalità recintavano le nostre intimità. Destinatario senza colpa di un dna che mi rendeva incapace di trapassare a piacimento dal mondo reale a quello dei sogni – negli anni nutrii una profonda invidia per quelle persone che dormivano a comando – accettai di buon grado l’ipotesi di un risveglio coatto. Incline per indole, poi, a trovare una buona ragione anche ai piccoli e fortuiti inconvenienti quotidiani decisi che fosse una buona occasione per scendere fino alla spiaggia. Mi sarei goduto l’alba nella confortevole speranza di non essere il solo ad essere già sveglio alle prime luci del giorno. Finte rocce in cemento si ammassavano a perdita d’occhio lungo l’ultimo lembo d’Oriente delineando una costa che sapeva di artificiale, perfino nella pulizia. Con un gesto atletico che sfuggì al controllo della mia pigra volontà mattutina mi sedetti su un grande masso a forma di nave. Da lì, diressi lo sguardo verso le centinaia di barche indorate di sole che prendevano il largo per la pesca dei gamberi, mentre una brezza salmastra portava a compimento le ultime fasi del mio risveglio. Il taxi che avevo prenotato con qualche difficoltà dalla reception del mio albergo – giurai di migliorare la mia pronuncia, mi fosse costato anche il corso di cucina tahititiana – sarebbe arrivato verso le dieci per portarmi all’aeroporto. Avevo già pagato l’affitto della piccola stanza che per due settimane aveva cullato le mie notti cinesi e la valigia era pronta. Decisi allora di proseguire lungo il viale alberato che portava alle strade del centro, lasciandomi trasportare dalle gambe che, sicure, procedevano passo dopo passo come se avessi avviato il pilota automatico. Diretto da quella volontà inconscia che sembrava parlare ai miei arti inferiori bypassando una parte del mio cervello, passai accanto alla casa da tè di Chen Yang, a pochi passi dall’albergo. Qualcosa mi spinse a varcarne la soglia d’ingresso: non avrei potuto accomiatarmi dalla Cina senza un’ultima tazza del miglior tè di tutta la provincia, pensai. Quando entrai il giovane inserviente che oramai mi conosceva bene mi venne incontro con tutti gli onori del caso per farmi accomodare. Senza nemmeno chiedermelo si segnò la mia ordinazione. Fu in quel breve soggiorno nel Fujian che mi appassionai, per non dire che ne ebbi dipendenza, ad una raffinata qualità di tè bianco. Ne amavo tutto, dal sapore delicato quasi di vaniglia, alla particolarità dei germogli, simili ad aghi argentati.
Poco dopo Yang in persona mi portò un chung d’acqua bollente e le foglie di tè riposte in una piccola scodella di ceramica bianca. Ci scambiammo un caloroso abbraccio e poi iniziai a preparare l’infuso seguendo i passi che l’antico rituale, insegnatomi dal mio caro amico, imponeva. Ma era la degustazione il momento in cui si poteva raggiungere lo stato di grazia assoluta. Sorseggiai così il tè cercando di far memoria di quel sapore che è la quintessenza stessa dell’Oriente e racchiude in sé il mistero di inaccessibili e arcani segreti sopravvissuti alle dinastie di ogni tempo. Ero ancora assorto in pensieri vaporosi e alogeni che si confondevano nel fumo azzurrognolo emanato dal tè, quando una voce bassa e rauca mi sorprese alle spalle:
– Yin Zhen: una donna per imperatori. Lei è un vero intenditore. –
Mi voltai, come svegliato con uno scossone da un sonno profondo, verso l’uomo che mi aveva parlato. Ma non vidi nessuno. Quando mi rivoltai un po’ stranito lo vidi con la coda dell’occhio prendere posto accanto a me. Aveva un’aria distinta ed era ben vestito. Doveva avere cinquant’anni, ma potevano essere anche sessanta: faticavo ancora a dare con precisione un’età a certi orientali. Baffi brizzolati e ben curati, un paio di minuti occhiali portati, forse per vezzo, sulla punta del naso e un cipiglio che gli corrugava la fronte gli conferivano un aspetto intelligente e stimabile. Sebbene amassi assaporare certi momenti in assoluta intimità – la pausa introspettiva del tè era uno di quei momenti – la presenza di quell’uomo non mi disturbò affatto.
– La ringrazio, ma non credo di aver nulla dell’imperatore. – Gli risposi, accennando di rimando un sorriso cordiale come quello che aveva dipinto con naturalezza sul volto.
Guardai fuori dalla finestra per vedere se il mio taxi era arrivato. Da quella posizione riuscivo a vedere l’albergo. L’uomo, intanto, ordinò del tè Wulong, che i cinesi chiamano il tè della bellezza. Poi si volse nuovamente a parlarmi:
– Aspetta qualcuno? –
– Aspetto un taxi. –
Mi resi conto di esser stato quanto mai laconico, ma era come se non volessi togliergli la parola per troppo tempo, quasi sapessi che aveva qualcosa da dirmi.
– Quale singolare coincidenza. Lei è un amante del tè dell’Imperatore ed io del tè Wulong. E la incontro oggi, nell’anniversario della morte di Yi Nu. Se me lo permette voglio raccontarle una storia che pochi conoscono. –
Senza sapere di cosa si trattasse mi sentii onorato di essere complice di quella coincidenza e destinatario di una racconto tanto misterioso. Feci un piccolo cenno col capo e lasciai che continuasse.
– Narra una leggenda che alcuni secoli fa un imperatore decise di mandare le proprie guardie ai quattro angoli del suo impero per rapire le ragazze più belle del regno: tra esse egli avrebbe scelto la sua futura sposa. Le guardie per settimane fecero razzie di fanciulle in ogni provincia e distretto che attraversarono. Andarono di villaggio in villaggio strappando alle madri le loro figlie più belle e sul calar della sera del ventinovesimo giorno giunsero a Shanjianxu dove incontrarono una giovane contadina di nome Yi Nu. Ammutoliti per la straordinaria bellezza della ragazza si convinsero che la loro ricerca sarebbe terminata con lei e che l'imperatore ne sarebbe rimasto entusiasta. Quando la presero, con la forza, la sorella di Yi Nu si gettò ai loro piedi. Prima implorò la loro clemenza e poi, rassegnata all’impotenza delle sue suppliche e in lacrime, per offrirsi al suo posto. Uno dei soldati decise di prendere entrambe le ragazze certo che la compagnia della sorella avrebbe reso più lieta alla futura compagna dell'imperatore la sua permanenza tra le stanze del palazzo. Quando l'imperatore vide Yi Nu si rivolse alle proprie guardie e disse: "Ci avete impiegato solo trenta giorni per portarmi la luna e per lasciare senza parole il vostro imperatore". Poi informò la bella contadina che presto sarebbe divenuta la sua sposa e che avrebbe potuto prendersi la sorella come sua serva, se lo desiderava.
Yi Nu avrebbe voluto morire piuttosto che giurare eterna fedeltà all'imperatore perché era innamorata di un umile pastore che corrispondeva il suo amore da quando erano fanciulli. Mille volte si erano giurati fedeltà eterna e mille volte avevano sognato il giorno in cui sarebbero vissuti assieme nella casa che sognavano, accanto al fiume. Yi Nu sapeva che non avrebbe mai più rivisto il suo amato pastore, tuttavia non smise un solo istante di rivolgere a lui i suoi pensieri più dolci e le proprie preghiere. Spesso parlava di lui con la sorella, che non aveva voluto abbandonarla al suo destino, ma ogni volta col timore che le loro conversazioni venissero scoperte. Non poteva pensare a cosa sarebbe accaduto al suo amato se l'imperatore avesse scoperto che desiderava un altro uomo. Lo avrebbe fatto di sicuro cercare dai suoi soldati per farlo uccidere. Allora Yi Nu inventò una scrittura segreta e, col tempo, le due sorelle iniziarono a scriversi su fogli di carta di riso ogni cosa, dall'amore della giovane contadina per il suo pastore, ai ricordi delle giornate nei campi assieme ai loro genitori. Ai sogni che avrebbero tanto voluto realizzare. Poterono così scrivere tutto il loro odio per l'imperatore poiché nessuno avrebbe scoperto il contenuto di quei messaggi e questo le aiutava a sfogare la loro rabbia che come un seme d’odio faceva germogliare nei loro cuori i fiori del male. Gli anni passarono e anche la leggendaria bellezza di Yu Nu cedette al passare delle stagioni, al punto che ella credeva di non poter più piacere al giovane pastore che ancora portava nel cuore. Così una mattina, dopo aver sedotto una delle guardie che vegliavano costantemente su di lei, gli rubò il pugnale e si trapassò le carni. La guardia per il suo tradimento venne uccisa in pubblico e la giovane sposa venne strappata alla morte che tanto bramava dai medici dell’imperatore. Ma l'odio per chi le aveva rubato i sogni e la voglia di amare la vita la portò a confessare davanti a tutti che ella non amava il suo imperatore e che nel suo cuore c'era un altro uomo a cui rivolgeva ogni suo pensiero, anche quando si concedeva a lui. Lo sdegno e la rabbia dell'imperatore per l’affronto subito furono enormi e le due sorelle vennero uccise senza alcuna pietà. –
Poi l’uomo aprì la valigia che portava con sé e ne trasse un piccolo rotolo di carta, sigillato al centro da un nastro di raso rosso.
– Nei pressi del villaggio di Shanjianxu, – continuò – nella regione meridionale dello Hunan, sorge il tempio della Montagna Fiorita. Questo luogo sacro è dedicato a Yi Nu e a sua sorella. Da secoli le contadine dello Hunan venerano i loro spiriti e sovente portano al tempio piccoli rotoli di carta di riso, come questo, e in essi confidano alle due sorelle i loro segreti, i loro desideri. Ma quelle preghiere… Quelle parole nessun uomo è mai riuscito a leggerle. Esse non sono scritte in cinese ma in nushu, una lingua creata da alcune donne per comunicare fra loro, in segreto. La mia famiglia conserva questo rotolo da generazioni. Si dice appartenga alla bella Yi Nu. Non so cosa vi sia scritto. Nessuno lo sa. So solo che mia madre prima di morire mi disse che se nel giorno di Yi Nu avessi incontrato un imperatore straniero avrei dovuto donargli questo rotolo pregandolo di conservarlo come fosse un tesoro prezioso. Credo che quel giorno sia arrivato e credo che l’imperatore di cui mia madre parlava sia lei. –
Un brivido mai provato prima mi attraversò tutto il corpo. Passavo da turista sfaccendato in procinto di ritornare alla routine del proprio lavoro, a destinatario di un tesoro di cui non sapevo nemmeno calcolarne il valore. Io, un semplice broker assicurativo in vacanza, ero diventato improvvisamente l’imperatore di una sorta di profezia che si stava compiendo esattamente quel giorno, in una tranquilla casa da tè, a migliaia di chilometri dal mio paese. Ebbi un attimo d’esitazione che l’uomo non tardò a notare.
– La prego, è solo un rotolo di carta in cui c’è scritta probabilmente una lettera di Yi Nu. Nulla di più. Da bambino pensavo spesso al giorno in cui l’avrei incontrata… Forse è solo il desiderio che quel giorno sia finalmente arrivato che mi spinge ora a darle questo rotolo. La scorsa notte, però, ho sognato questo momento, in un altro luogo e con un uomo di cui non ricordo il volto, ma che aveva la sua stessa voce. Perciò la prego di accettare questo mio regalo. Sento che le appartiene. –
Allungai la mano per prendere il rotolo con lo sguardo fisso sul piccolo nastro che lo chiudeva. Guardai l’orologio e poi mi voltai verso la finestra. Il taxi era arrivato, probabilmente da poco. Mi congedai da quell’uomo con la sensazione di non averlo ringraziato abbastanza. Riuscii solo a promettergli di aver cura di quel suo dono, così prezioso. Salutai ancora una volta Yang e poi mi diressi di corsa verso l’auto che mi stava spettando dall’altro lato della strada.
– Buongiorno. All’aeroporto, grazie. –
– Come desidera, imperatore. – Mi parve di sentire. Ma il tassista si mangiò le parole e con la pronuncia cinese non avevo ancora confidenza.
Durante il viaggio in aereo continuai a stringere tra le mani quel rotolo di carta, ma non ebbi il coraggio di aprirlo. Sono passati alcuni anni da quel giorno e non l’ho mai aperto. È ancora nel cassetto dove lo misi al mio ritorno, assieme ai miei effetti più cari. Se anche lo aprissi, nessuno potrebbe dirmi cosa c’è scritto: solo Yu Nu e sua sorella conoscevano quella scrittura. Ho imparato che il Destino è come una serie di infinte stanze tra loro comunicanti, con infinite porte. Non so se le chiavi per aprirle le abbiamo già, o ci vengono consegnate in un momento prestabilito, da qualcuno che si fa messaggero inconsapevole di parole e fatti per noi importanti. Avevo aspettato trent’anni prima di poter incontrare quell’uomo e di ricevere dalle sue mani quel rotolo. Forse il giorno in cui lo avrei aperto per leggerne il contenuto sarebbe presto arrivato. Forse.
sabato 13 ottobre 2007
Clessidra d'Amore
Sei la neve immacolata che lava le mie mani
Sei il mare in cui si gettano i miei pensieri
Sei il vento che infiamma il mio cuore
Sei la stella polare delle mie azioni
Sei il sole al centro della mia vita
Sei la luna dietro le mie poesie
Sei la terra fertile che coltivo
Sei tutte le stelle del cielo
Sei la notte dei misteri
Sei l’alba che nasce
Sei pura passione
Sei vero amore
Sei l’amante
Sei l’amata
Sei la vita
Sei luce
Sei tu
L'Ultimo Prestigio
Scesi dall’autobus e mi diressi verso l’imbarcadero chiedendomi se avessi dimenticato qualcosa. In coda, alla biglietteria, aprii lo zaino e controllai. C’era tutto. Alle sei Roberto mi aspettava all’isola di San Giorgio: ci attendeva un lavoro tranquillo, un buffet per il compleanno di una famosa stilista. Caricai lo zaino sulla spalla e aspettai il mio traghetto. Aveva piovuto e non era caldo, ma cercai un posto in fondo, allo scoperto. Mi ci volle un po’ prima di accorgermi dell’uomo seduto accanto a me. La poca luce che filtrava da un cielo di grafite si rifletté su una moneta d’oro che continuava a passarsi da una mano all’altra, sul dorso delle dita. Vi era incisa una croce gigliata.
– La prossima fermata è San Giorgio? – Mi chiese.
Aveva una voce sottile e un divertente accento francese.
– No, ne mancano ancora due. Scendo anch’io lì. –
I lineamenti del suo volto erano armoniosi e appena accennati. La pelle, bianca e lucida, contrastava i suoi occhi scuri. Se non fosse stato per un ematoma intorno al collo poteva sembrare un manichino.
– E’ un pianista? – Gli chiesi.
– Cosa glielo fa credere? – Mi chiese a sua volta.
– Le sue mani. E la moneta… Sembra un esercizio. –
L’uomo sorrise. Dovevo averlo stupito per quella mia deduzione. O forse per la convinzione che dimostrai.
– No, non sono un pianista, ma lo era mio padre. –
Mi sentii stupido. Speravo terminasse la frase, svelandomi la sua professione. Ma proseguì dicendo:
– Lei, invece, fa il cameriere. –
Stetti in silenzio. Volevo chiedergli come avesse fatto ad indovinare, quando mi disse:
– Pronto a servire gli invitati di Marina Ziltener? –
Non ricordo quale fu la mia reazione. So che non gli risposi. Lo guardai meglio, per capire se lo avevo già visto. Forse mi conosceva. Ma lui continuò sorridendo:
– No… Oggi è la prima volta che ci incontriamo. –
Per qualche istante non riuscii a respirare. I lineamenti di quel volto così delicato si fecero improvvisamente taglienti. Il suo sguardo si adombrò. Infine aggiunse:
– Quando ha rovistato all’interno della sua borsa io ero in coda per prendere il biglietto, dietro di lei. Così ho notato che porta con sé una divisa da cameriere. Poi mi ha detto che sarebbe sceso a San Giorgio e la festa per la signora Ziltener è l’unica in programma sull’isola. –
Quello che accadde da quel momento sino a quando ripresi il traghetto non l’ho mai raccontato prima d’ora.
Durante la serata incontrai quattro giovani musicisti. Era un quartetto d’archi che avevo già visto esibirsi all’Open Air Theatre di Londra e così chiesi loro se avrebbero suonato anche quella sera “Through the Alchemist's Eyes”. Mi dissero che non avevano avuto tempo per provarlo e che erano lì per sostituire un famoso prestigiatore francese, tragicamente scomparso. Domandai chi fosse e come fosse scomparso. Il violoncellista mi disse che avevano ritrovato un corpo la notte scorsa incagliato sul fondale di un canale, a San Giorgio. Era il corpo di Jean-René de La Croix.
Per tutta la sera non smisi un solo istante di pensare a quel prestigiatore e all’uomo che avevo incontrato. Il suo accento francese, il suo aspetto, la croce… Ero certo che fossero la stessa persona. Credevo alla vita dopo la morte, all’esistenza dell’anima, perciò ero sicuro di aver parlato con lo spirito di Jean-René.
Terminata la festa salutai Roberto e mi diressi verso l’approdo del traghetto. Forse mi sarebbe apparso ancora. Lo speravo. Mentre camminavo udii un rumore metallico. Mi voltai alla mia destra e vidi qualcosa muoversi e brillare. D’istinto mi misi a correre. Ora riuscivo a distinguerne la forma: era una moneta. Fui a pochi metri dal raggiungerla, ma più correvo, più la moneta accelerava la sua corsa. Mi gettai a terra, ma prima che potessi afferrarla cadde nelle acque della laguna. La osservai scendere lentamente in profondità e mentre roteava riconobbi la croce gigliata.
Salii sul traghetto, ma questa volta non lo incontrai.
La mattina seguente feci alcune ricerche e scoprii che era morto per strangolamento. In una sua biografia, lessi che da ragazzo era stato rinchiuso nell’ospedale psichiatrico di Villejuif perché era convinto di poter parlare con gli spiriti. Quando ne uscì disse che non aveva più nessuna visione e a distanza di qualche anno raccontò di essersi inventato tutto solamente per avere le attenzioni dei suoi genitori.
Credo che prima di essere rinchiuso Jean-René parlasse realmente con i morti. E credo che avesse continuato a vederli anche dopo. Forse la moneta che ho rincorso era solo il suo ultimo prestigio. Quello che so è che non erano immaginari quegli amici che avevo da bambino.