sabato 27 ottobre 2007

Stella d'Ottobre

Se avesse potuto scegliermi una sorella

il mio cuore ti avrebbe scelta fra tutte;

se gli chiedo di indicarmi un’amica speciale

mi risponde che è in te che la posso trovare.

Se solo lui potesse viaggiare nel tempo

trasformerebbe i nostri litigi in abbracci.

Non aver dubbi mai su queste mie parole

perché a dettarmele è il mio cuore sincero

e c’è solo un’altra persona al mondo

a cui potrei ripeterle e dar loro senso:

la tua amica e sorella Marta.

Auguri, mia piccola Stella d’Ottobre,

dalla profonda infinità del mio cuore.

venerdì 26 ottobre 2007

Emotional landscape

Eccomi. Dietro di me solo una scia di orme che giace su una distesa marmorea di sabbia. Sopra la mia testa i quattro eserciti delle nuvole si spartiscono gli ultimi lembi di cielo: i Bianchi Arceri arrivati da Est si sono disposti uno accanto all’altro con gli archi tesi e pronti a colpire. Da sud marcia inesorabile la Legione del Vento Nero, mentre a Nord tuona il grido di guerra di un'orda di Nembi. Guardo ad Ovest, ma sono ancora lontani. Presto arriverà l’esercito della Falce Grigia e inizierà una nuova battaglia per la conquista del tetto del mondo. Molti cadranno prima del sorgere del nuovo sole e altro sangue si spargerà, ma sarà servito a nutrire la terra. Seduto sulla sabbia umida osservo il volo di una coppia di gabbianelle che si librano tra cielo e terra. Lei e lui, ne sono certo. Lei è quella che è appena scesa a lambire le onde che giocano a rincorrersi sulla superficie del mare, incalzate dal vento. Lui, dietro, la segue istintivamente, fendendo l’aria con il becco ad ogni virata. Quanto starà penando, penso. Ma poi mi rendo conto che loro non hanno peso, come non lo hanno due onde d'aria, ed ogni movimento, anche il più repentino e brusco, sembra non costare fatica. Un timido tramonto sta cedendo il passo alla luna, ma scende lento. Ora è fermo. Anche lui, come me, osserva al di là del mare il loro amore. Non v'è dubbio che si amino, non v'è dubbio. Nemmeno l’Apocalisse potrebbe interrompere il loro corteggiamento, né il nero della Notte dei Tempi impedirgli ora di guardarsi. Una brezza salmastra inquieta la mia anima: ho voglia di volare. In fondo non c'è nessuno, non vedo perché non farlo. E poi tra un po’ scoppierà il diluvio e tutti cercheranno riparo nelle loro case. E se anche mi vedessero? Pensino pure di me che sono pazzo, tanto, in fondo, sono il primo a crederlo. Apro le braccia e osservo le estremità delle mie mani; come vorrei che un bianco piumaggio di gabbiano le ricoprisse. Tendo le dita, forte, e tento di allungarmi oltre i limiti del mio corpo. Ci sto stretto, io, qui dentro. Giro i palmi delle mani al vento e le sento gonfiarsi come le vele di un vascello. Chiudo gli occhi e non sento più il peso delle mie membra mentre il pensiero si libra oltre la ragione. Voglio essere un uccello e non subire più le catene della gravità: devo diventare vento. Voglio essere l’aria, galeotta, che sorregge il volo di quei due gabbiani, per scendere con loro in picchiata increspando le onde del mare. Voglio essere il mare, che nulla teme, nemmeno il giorno in cui non potrà più abbracciare la terra. Voglio essere i suoi abissi e le sue onde. Voglio essere acqua: un principio primo. Voglio essere, semplicemente, l’eterno del Creato.

E me ne sto seduto al limite del mare,

ne prendo le distanze per osservare

il moto perpetuo delle sue onde

gioco di richiami, di rilasci: sponde

ove rimbalza, molle, la mia ragione.

Archi perfetti sulla sabbia scura

sono un’impronta d’eterno:

una parola scritta infinite volte.

Ma è una scritta sulla sabbia che svanirà come le orme dei miei passi.

mercoledì 24 ottobre 2007

Archegonia mentale

E il mio pensiero s’inabissa

tra le venature di un marmo,

cosmogonia di mondi nuovi

che officina inquieti mostri.

Un cielo biancheggia di nuvola:

è l’arrivo delle creature fanciulle;

riposa l’elefante sul tramontar

al canto muto di una sirena alata.

martedì 23 ottobre 2007

Cuore di ronin

“Ama!” grida il mio cuore di ronin

ma vivo nel tempo d’un respiro

schivo paro colpisco. Letale.

Un’onda di luce dietro ogni azione,

come ombra: si confonde in me

il-bianco-che-abbraccia-il-nero

in un istante d’eterno vivere

sono una musica – rumore? -

sicuro rifugio degli opposti.

Quante contraddizioni, ancora,

gridano all’unisono: mute frequenze

si muovono carsiche

per essere udite, da chi udirle potrà.

HAIKU #1 - Equilibrium -

Fuochi dell'Ira
travolgono l'anima;
vuoto perfetto

lunedì 22 ottobre 2007

Come fari nella tempesta

La Vita. Tentavo di disegnarla. Un primo schizzo era stato questo: un fiume in piena e noi – intendo quelli che non si lasciano semplicemente trasportare dalla corrente – che cerchiamo di percorrerlo sulle nostre piccole canoe, pronti a schivare rocce disseminate ovunque e sperando di non finire in un vortice da cui non usciremmo vivi. Ma in questa fotografia (troppo realistica infatti) mi era difficile dare la giusta dimensione all’affetto che mi lega a tre persone speciali. In questo modo non sarei riuscito a parlarvi di Matteo, di Alberto e di Ricardo. Così, pensando ad un nome da dare al mio blog, ho immaginato che “il faro” potesse essere non solo metafora di me stesso, ma anche della nostra amicizia. In quelle acque agitate, allora, non siamo più quattro temerarie imbarcazioni che cercano di stare a galla, semplici rotte tra le rotte, ma diveniamo dei punti fissi, l’uno per l’altro, che cercano a loro modo di far luce in un mondo sempre più eclissato dal nonsenso. Che cercano di mostrare a gli altri chi sono, di indicare il loro cammino. La speranza è quella di incontrare qualcuno che condivida con noi passioni, ideali e sogni. Che, insomma, condivida la nostra esistenza. Ecco perché nasce il faro, come metafora di uno sguardo “sempre fisso che sovrasta la tempesta”, di un ideale che non cede alle pressioni della superficialità e della mediocrità; che controcorrente, se necessario, continuerà ad illuminare il suo angolo di mondo. E poi i colori. I colori con i quali dipingiamo la nostra vita. Ad ognuno il suo, differente, per simboleggiare le nostre peculiarità. Ragazzi, vi conosco esattamente dallo stesso istante: primo giorno di scuola alla IA del liceo Morin. Però vi ho “incontrati” in momenti diversi. È stata la luce verde di Matteo la prima ad illuminare nella mia stessa direzione. Una luce accecante, capace di illuminare il Cosmo intero, e talmente simile alla mia che se fossimo nati stelle saremmo stati Mizar ed Alcor, una stella doppia. E da quel momento, giorno dopo giorno, capii che avevo conosciuto una persona con la quale condividere, e forse realizzare, gran parte dei miei sogni. È stata poi la volta della luce viola. Non a caso quel colore lo conobbi in un momento particolare della sua vita. Di colpo venni illuminato da una profondità d’animo senza eguali e da una coerenza morale a cui spesso cerco di tendere, ma come si tende all’infinito, senza mai raggiungerlo. Un colore, il viola di Alberto, che illumina di un’apparente malinconia, come un canto di violino che suona una musica criptica – perché preziosa – ma che nasconde un messaggio che è il significato stesso della vita: Amore. Ultima, la luce azzurra, è diventata in questi ultimi anni la colonna sonora della mie giornate. Ricardo è la persona che più si avvicina al mio personale concetto di artista: una creatività quasi surreale, come un film di Tim Burton. E poi il suo entusiasmo è fuoco vivo che nutre le mie passioni, dal canto alla scrittura, e che si ravviva ogni volta che le nostre strade si incontrano.

Vi voglio bene ragazzi.

Vostro,

Mattia.

domenica 21 ottobre 2007

Yi Nu

Era la mattina del mio ultimo giorno a Xiamen. Una successione in crescendo di grida provenienti dalla camera dei vicini squarciò come fossero di cartapesta le mura che per pura formalità recintavano le nostre intimità. Destinatario senza colpa di un dna che mi rendeva incapace di trapassare a piacimento dal mondo reale a quello dei sogni – negli anni nutrii una profonda invidia per quelle persone che dormivano a comando – accettai di buon grado l’ipotesi di un risveglio coatto. Incline per indole, poi, a trovare una buona ragione anche ai piccoli e fortuiti inconvenienti quotidiani decisi che fosse una buona occasione per scendere fino alla spiaggia. Mi sarei goduto l’alba nella confortevole speranza di non essere il solo ad essere già sveglio alle prime luci del giorno. Finte rocce in cemento si ammassavano a perdita d’occhio lungo l’ultimo lembo d’Oriente delineando una costa che sapeva di artificiale, perfino nella pulizia. Con un gesto atletico che sfuggì al controllo della mia pigra volontà mattutina mi sedetti su un grande masso a forma di nave. Da lì, diressi lo sguardo verso le centinaia di barche indorate di sole che prendevano il largo per la pesca dei gamberi, mentre una brezza salmastra portava a compimento le ultime fasi del mio risveglio. Il taxi che avevo prenotato con qualche difficoltà dalla reception del mio albergo – giurai di migliorare la mia pronuncia, mi fosse costato anche il corso di cucina tahititiana – sarebbe arrivato verso le dieci per portarmi all’aeroporto. Avevo già pagato l’affitto della piccola stanza che per due settimane aveva cullato le mie notti cinesi e la valigia era pronta. Decisi allora di proseguire lungo il viale alberato che portava alle strade del centro, lasciandomi trasportare dalle gambe che, sicure, procedevano passo dopo passo come se avessi avviato il pilota automatico. Diretto da quella volontà inconscia che sembrava parlare ai miei arti inferiori bypassando una parte del mio cervello, passai accanto alla casa da tè di Chen Yang, a pochi passi dall’albergo. Qualcosa mi spinse a varcarne la soglia d’ingresso: non avrei potuto accomiatarmi dalla Cina senza un’ultima tazza del miglior tè di tutta la provincia, pensai. Quando entrai il giovane inserviente che oramai mi conosceva bene mi venne incontro con tutti gli onori del caso per farmi accomodare. Senza nemmeno chiedermelo si segnò la mia ordinazione. Fu in quel breve soggiorno nel Fujian che mi appassionai, per non dire che ne ebbi dipendenza, ad una raffinata qualità di tè bianco. Ne amavo tutto, dal sapore delicato quasi di vaniglia, alla particolarità dei germogli, simili ad aghi argentati.

Poco dopo Yang in persona mi portò un chung d’acqua bollente e le foglie di tè riposte in una piccola scodella di ceramica bianca. Ci scambiammo un caloroso abbraccio e poi iniziai a preparare l’infuso seguendo i passi che l’antico rituale, insegnatomi dal mio caro amico, imponeva. Ma era la degustazione il momento in cui si poteva raggiungere lo stato di grazia assoluta. Sorseggiai così il tè cercando di far memoria di quel sapore che è la quintessenza stessa dell’Oriente e racchiude in sé il mistero di inaccessibili e arcani segreti sopravvissuti alle dinastie di ogni tempo. Ero ancora assorto in pensieri vaporosi e alogeni che si confondevano nel fumo azzurrognolo emanato dal tè, quando una voce bassa e rauca mi sorprese alle spalle:

– Yin Zhen: una donna per imperatori. Lei è un vero intenditore. –

Mi voltai, come svegliato con uno scossone da un sonno profondo, verso l’uomo che mi aveva parlato. Ma non vidi nessuno. Quando mi rivoltai un po’ stranito lo vidi con la coda dell’occhio prendere posto accanto a me. Aveva un’aria distinta ed era ben vestito. Doveva avere cinquant’anni, ma potevano essere anche sessanta: faticavo ancora a dare con precisione un’età a certi orientali. Baffi brizzolati e ben curati, un paio di minuti occhiali portati, forse per vezzo, sulla punta del naso e un cipiglio che gli corrugava la fronte gli conferivano un aspetto intelligente e stimabile. Sebbene amassi assaporare certi momenti in assoluta intimità – la pausa introspettiva del tè era uno di quei momenti – la presenza di quell’uomo non mi disturbò affatto.

– La ringrazio, ma non credo di aver nulla dell’imperatore. – Gli risposi, accennando di rimando un sorriso cordiale come quello che aveva dipinto con naturalezza sul volto.

Guardai fuori dalla finestra per vedere se il mio taxi era arrivato. Da quella posizione riuscivo a vedere l’albergo. L’uomo, intanto, ordinò del tè Wulong, che i cinesi chiamano il tè della bellezza. Poi si volse nuovamente a parlarmi:

– Aspetta qualcuno? –

– Aspetto un taxi. –

Mi resi conto di esser stato quanto mai laconico, ma era come se non volessi togliergli la parola per troppo tempo, quasi sapessi che aveva qualcosa da dirmi.

– Quale singolare coincidenza. Lei è un amante del tè dell’Imperatore ed io del tè Wulong. E la incontro oggi, nell’anniversario della morte di Yi Nu. Se me lo permette voglio raccontarle una storia che pochi conoscono. –

Senza sapere di cosa si trattasse mi sentii onorato di essere complice di quella coincidenza e destinatario di una racconto tanto misterioso. Feci un piccolo cenno col capo e lasciai che continuasse.

– Narra una leggenda che alcuni secoli fa un imperatore decise di mandare le proprie guardie ai quattro angoli del suo impero per rapire le ragazze più belle del regno: tra esse egli avrebbe scelto la sua futura sposa. Le guardie per settimane fecero razzie di fanciulle in ogni provincia e distretto che attraversarono. Andarono di villaggio in villaggio strappando alle madri le loro figlie più belle e sul calar della sera del ventinovesimo giorno giunsero a Shanjianxu dove incontrarono una giovane contadina di nome Yi Nu. Ammutoliti per la straordinaria bellezza della ragazza si convinsero che la loro ricerca sarebbe terminata con lei e che l'imperatore ne sarebbe rimasto entusiasta. Quando la presero, con la forza, la sorella di Yi Nu si gettò ai loro piedi. Prima implorò la loro clemenza e poi, rassegnata all’impotenza delle sue suppliche e in lacrime, per offrirsi al suo posto. Uno dei soldati decise di prendere entrambe le ragazze certo che la compagnia della sorella avrebbe reso più lieta alla futura compagna dell'imperatore la sua permanenza tra le stanze del palazzo. Quando l'imperatore vide Yi Nu si rivolse alle proprie guardie e disse: "Ci avete impiegato solo trenta giorni per portarmi la luna e per lasciare senza parole il vostro imperatore". Poi informò la bella contadina che presto sarebbe divenuta la sua sposa e che avrebbe potuto prendersi la sorella come sua serva, se lo desiderava.

Yi Nu avrebbe voluto morire piuttosto che giurare eterna fedeltà all'imperatore perché era innamorata di un umile pastore che corrispondeva il suo amore da quando erano fanciulli. Mille volte si erano giurati fedeltà eterna e mille volte avevano sognato il giorno in cui sarebbero vissuti assieme nella casa che sognavano, accanto al fiume. Yi Nu sapeva che non avrebbe mai più rivisto il suo amato pastore, tuttavia non smise un solo istante di rivolgere a lui i suoi pensieri più dolci e le proprie preghiere. Spesso parlava di lui con la sorella, che non aveva voluto abbandonarla al suo destino, ma ogni volta col timore che le loro conversazioni venissero scoperte. Non poteva pensare a cosa sarebbe accaduto al suo amato se l'imperatore avesse scoperto che desiderava un altro uomo. Lo avrebbe fatto di sicuro cercare dai suoi soldati per farlo uccidere. Allora Yi Nu inventò una scrittura segreta e, col tempo, le due sorelle iniziarono a scriversi su fogli di carta di riso ogni cosa, dall'amore della giovane contadina per il suo pastore, ai ricordi delle giornate nei campi assieme ai loro genitori. Ai sogni che avrebbero tanto voluto realizzare. Poterono così scrivere tutto il loro odio per l'imperatore poiché nessuno avrebbe scoperto il contenuto di quei messaggi e questo le aiutava a sfogare la loro rabbia che come un seme d’odio faceva germogliare nei loro cuori i fiori del male. Gli anni passarono e anche la leggendaria bellezza di Yu Nu cedette al passare delle stagioni, al punto che ella credeva di non poter più piacere al giovane pastore che ancora portava nel cuore. Così una mattina, dopo aver sedotto una delle guardie che vegliavano costantemente su di lei, gli rubò il pugnale e si trapassò le carni. La guardia per il suo tradimento venne uccisa in pubblico e la giovane sposa venne strappata alla morte che tanto bramava dai medici dell’imperatore. Ma l'odio per chi le aveva rubato i sogni e la voglia di amare la vita la portò a confessare davanti a tutti che ella non amava il suo imperatore e che nel suo cuore c'era un altro uomo a cui rivolgeva ogni suo pensiero, anche quando si concedeva a lui. Lo sdegno e la rabbia dell'imperatore per l’affronto subito furono enormi e le due sorelle vennero uccise senza alcuna pietà. –

Poi l’uomo aprì la valigia che portava con sé e ne trasse un piccolo rotolo di carta, sigillato al centro da un nastro di raso rosso.

– Nei pressi del villaggio di Shanjianxu, – continuò – nella regione meridionale dello Hunan, sorge il tempio della Montagna Fiorita. Questo luogo sacro è dedicato a Yi Nu e a sua sorella. Da secoli le contadine dello Hunan venerano i loro spiriti e sovente portano al tempio piccoli rotoli di carta di riso, come questo, e in essi confidano alle due sorelle i loro segreti, i loro desideri. Ma quelle preghiere… Quelle parole nessun uomo è mai riuscito a leggerle. Esse non sono scritte in cinese ma in nushu, una lingua creata da alcune donne per comunicare fra loro, in segreto. La mia famiglia conserva questo rotolo da generazioni. Si dice appartenga alla bella Yi Nu. Non so cosa vi sia scritto. Nessuno lo sa. So solo che mia madre prima di morire mi disse che se nel giorno di Yi Nu avessi incontrato un imperatore straniero avrei dovuto donargli questo rotolo pregandolo di conservarlo come fosse un tesoro prezioso. Credo che quel giorno sia arrivato e credo che l’imperatore di cui mia madre parlava sia lei. –

Un brivido mai provato prima mi attraversò tutto il corpo. Passavo da turista sfaccendato in procinto di ritornare alla routine del proprio lavoro, a destinatario di un tesoro di cui non sapevo nemmeno calcolarne il valore. Io, un semplice broker assicurativo in vacanza, ero diventato improvvisamente l’imperatore di una sorta di profezia che si stava compiendo esattamente quel giorno, in una tranquilla casa da tè, a migliaia di chilometri dal mio paese. Ebbi un attimo d’esitazione che l’uomo non tardò a notare.

– La prego, è solo un rotolo di carta in cui c’è scritta probabilmente una lettera di Yi Nu. Nulla di più. Da bambino pensavo spesso al giorno in cui l’avrei incontrata… Forse è solo il desiderio che quel giorno sia finalmente arrivato che mi spinge ora a darle questo rotolo. La scorsa notte, però, ho sognato questo momento, in un altro luogo e con un uomo di cui non ricordo il volto, ma che aveva la sua stessa voce. Perciò la prego di accettare questo mio regalo. Sento che le appartiene. –

Allungai la mano per prendere il rotolo con lo sguardo fisso sul piccolo nastro che lo chiudeva. Guardai l’orologio e poi mi voltai verso la finestra. Il taxi era arrivato, probabilmente da poco. Mi congedai da quell’uomo con la sensazione di non averlo ringraziato abbastanza. Riuscii solo a promettergli di aver cura di quel suo dono, così prezioso. Salutai ancora una volta Yang e poi mi diressi di corsa verso l’auto che mi stava spettando dall’altro lato della strada.

– Buongiorno. All’aeroporto, grazie. –

– Come desidera, imperatore. – Mi parve di sentire. Ma il tassista si mangiò le parole e con la pronuncia cinese non avevo ancora confidenza.

Durante il viaggio in aereo continuai a stringere tra le mani quel rotolo di carta, ma non ebbi il coraggio di aprirlo. Sono passati alcuni anni da quel giorno e non l’ho mai aperto. È ancora nel cassetto dove lo misi al mio ritorno, assieme ai miei effetti più cari. Se anche lo aprissi, nessuno potrebbe dirmi cosa c’è scritto: solo Yu Nu e sua sorella conoscevano quella scrittura. Ho imparato che il Destino è come una serie di infinte stanze tra loro comunicanti, con infinite porte. Non so se le chiavi per aprirle le abbiamo già, o ci vengono consegnate in un momento prestabilito, da qualcuno che si fa messaggero inconsapevole di parole e fatti per noi importanti. Avevo aspettato trent’anni prima di poter incontrare quell’uomo e di ricevere dalle sue mani quel rotolo. Forse il giorno in cui lo avrei aperto per leggerne il contenuto sarebbe presto arrivato. Forse.

sabato 13 ottobre 2007

Clessidra d'Amore

Sei la neve immacolata che lava le mie mani

Sei il mare in cui si gettano i miei pensieri

Sei il vento che infiamma il mio cuore

Sei la stella polare delle mie azioni

Sei il sole al centro della mia vita

Sei la luna dietro le mie poesie

Sei la terra fertile che coltivo

Sei tutte le stelle del cielo

Sei la notte dei misteri

Sei l’alba che nasce

Sei pura passione

Sei vero amore

Sei l’amante

Sei l’amata

Sei la vita

Sei luce

Sei tu

L'Ultimo Prestigio

Scesi dall’autobus e mi diressi verso l’imbarcadero chiedendomi se avessi dimenticato qualcosa. In coda, alla biglietteria, aprii lo zaino e controllai. C’era tutto. Alle sei Roberto mi aspettava all’isola di San Giorgio: ci attendeva un lavoro tranquillo, un buffet per il compleanno di una famosa stilista. Caricai lo zaino sulla spalla e aspettai il mio traghetto. Aveva piovuto e non era caldo, ma cercai un posto in fondo, allo scoperto. Mi ci volle un po’ prima di accorgermi dell’uomo seduto accanto a me. La poca luce che filtrava da un cielo di grafite si rifletté su una moneta d’oro che continuava a passarsi da una mano all’altra, sul dorso delle dita. Vi era incisa una croce gigliata.

– La prossima fermata è San Giorgio? – Mi chiese.

Aveva una voce sottile e un divertente accento francese.

– No, ne mancano ancora due. Scendo anch’io lì. –

I lineamenti del suo volto erano armoniosi e appena accennati. La pelle, bianca e lucida, contrastava i suoi occhi scuri. Se non fosse stato per un ematoma intorno al collo poteva sembrare un manichino.

– E’ un pianista? – Gli chiesi.

– Cosa glielo fa credere? – Mi chiese a sua volta.

– Le sue mani. E la moneta… Sembra un esercizio. –

L’uomo sorrise. Dovevo averlo stupito per quella mia deduzione. O forse per la convinzione che dimostrai.

– No, non sono un pianista, ma lo era mio padre. –

Mi sentii stupido. Speravo terminasse la frase, svelandomi la sua professione. Ma proseguì dicendo:

– Lei, invece, fa il cameriere. –

Stetti in silenzio. Volevo chiedergli come avesse fatto ad indovinare, quando mi disse:

– Pronto a servire gli invitati di Marina Ziltener? –

Non ricordo quale fu la mia reazione. So che non gli risposi. Lo guardai meglio, per capire se lo avevo già visto. Forse mi conosceva. Ma lui continuò sorridendo:

– No… Oggi è la prima volta che ci incontriamo. –

Per qualche istante non riuscii a respirare. I lineamenti di quel volto così delicato si fecero improvvisamente taglienti. Il suo sguardo si adombrò. Infine aggiunse:

– Quando ha rovistato all’interno della sua borsa io ero in coda per prendere il biglietto, dietro di lei. Così ho notato che porta con sé una divisa da cameriere. Poi mi ha detto che sarebbe sceso a San Giorgio e la festa per la signora Ziltener è l’unica in programma sull’isola. –

Quello che accadde da quel momento sino a quando ripresi il traghetto non l’ho mai raccontato prima d’ora.

Durante la serata incontrai quattro giovani musicisti. Era un quartetto d’archi che avevo già visto esibirsi all’Open Air Theatre di Londra e così chiesi loro se avrebbero suonato anche quella sera “Through the Alchemist's Eyes”. Mi dissero che non avevano avuto tempo per provarlo e che erano lì per sostituire un famoso prestigiatore francese, tragicamente scomparso. Domandai chi fosse e come fosse scomparso. Il violoncellista mi disse che avevano ritrovato un corpo la notte scorsa incagliato sul fondale di un canale, a San Giorgio. Era il corpo di Jean-René de La Croix.

Per tutta la sera non smisi un solo istante di pensare a quel prestigiatore e all’uomo che avevo incontrato. Il suo accento francese, il suo aspetto, la croce… Ero certo che fossero la stessa persona. Credevo alla vita dopo la morte, all’esistenza dell’anima, perciò ero sicuro di aver parlato con lo spirito di Jean-René.

Terminata la festa salutai Roberto e mi diressi verso l’approdo del traghetto. Forse mi sarebbe apparso ancora. Lo speravo. Mentre camminavo udii un rumore metallico. Mi voltai alla mia destra e vidi qualcosa muoversi e brillare. D’istinto mi misi a correre. Ora riuscivo a distinguerne la forma: era una moneta. Fui a pochi metri dal raggiungerla, ma più correvo, più la moneta accelerava la sua corsa. Mi gettai a terra, ma prima che potessi afferrarla cadde nelle acque della laguna. La osservai scendere lentamente in profondità e mentre roteava riconobbi la croce gigliata.

Salii sul traghetto, ma questa volta non lo incontrai.

La mattina seguente feci alcune ricerche e scoprii che era morto per strangolamento. In una sua biografia, lessi che da ragazzo era stato rinchiuso nell’ospedale psichiatrico di Villejuif perché era convinto di poter parlare con gli spiriti. Quando ne uscì disse che non aveva più nessuna visione e a distanza di qualche anno raccontò di essersi inventato tutto solamente per avere le attenzioni dei suoi genitori.

Credo che prima di essere rinchiuso Jean-René parlasse realmente con i morti. E credo che avesse continuato a vederli anche dopo. Forse la moneta che ho rincorso era solo il suo ultimo prestigio. Quello che so è che non erano immaginari quegli amici che avevo da bambino.

De "Parole in Corsa"

La mia vita da blogger non poteva iniziare sotto miglior auspicio. Sarò sincero - perché ho sempre immaginato un blog come uno stream di pensieri senza filtri, senza mezze misure - pensavo di piazzarmi nel quintetto dei finalisti e di aprire questo blog con il mio racconto vincitore. Ah già, la consecutio factorum: rewind.
Antefatto: una mia cara amica mi parla entusiasta di un concorso nazionale per scrittori inediti, dice che si chiama Parole in Corsa. Sulla scia di quell'entusiasmo vi partecipo inviando il mio racconto "L'ultimo prestigio": tra idea e stesura è trascorsa una sera. Nato di getto, il difficile è stato adattarlo alle richieste: massimo 90 righe di 58 battute per un totale di 5300 battute. Sì, avete ragione, all'ACTV non devono esser bravi a far di conto perché 90 per 58 fa 5220. Ma tralasciando l'algebra, i tagli giornalistici che ho dovuto apportare al racconto originario son stati molto probabilmente anche il motivo per cui non è piaciuto alla giuria. Ho dovuto mutilare il racconto a colpi di scalpello per rispettarne la lunghezza, in una sintesi forse poco efficace. Questa è l'autocritica che mi spetta. Ma avevo esordito dicendo che in un blog dovrebbe valere la legge non scritta della sincerità, pena la valenza stessa del blog. Bene, allora vi dico che i cinque racconti finalisti erano terribilmente noiosi e banali. Ma c'erano i superlativi Carlo e Giorgio a destare la mia attenzione, provata da melensi e demenziali racconti, e quindi spetta loro un plauso: ragazzi, siete stati formidabili!